Vi sono scarse prove del fatto che nefrologi e pazienti condividano il processo decisionale relativo al possibile inizio di una terapia dialitica e potrebbe darsi che ciò si debba al fatto che i medici non siano stati addestrati in questa pratica. Questo dato deriva dall’analisi qualitativa delle cartelle cliniche elettroniche di 1.631 pazienti, nelle quali, secondo l’autrice Susan Wong dell’Università di Washington, non emerge affatto il ruolo di valori e preferenze del paziente e degli obiettivi della terapia mentre, nel processo decisionale condiviso, questi elementi dovrebbero occupare metà del materiale necessario a giungere alla scelta finale.
La decisione è influenzata da numerosi fattori, molti dei quali sono correlati alle condizioni iniziali del paziente: ad esempio, i pazienti ricoverati giungono alla conclusione di dover iniziare la dialisi molto più rapidamente rispetto a quelli ambulatoriali e, in questi ultimi, spesso l’inizio della dialisi corrisponde ad un evento traumatico, come alla comparsa dei sintomi di uremia, oppure alla prospettiva di un intervento chirurgico.
In caso di diniego o resistenza, è opportuno che il medico investighi a fondo i motivi di questi atteggiamenti, in quanto potrebbero essere legati ad incomprensioni o concezioni errate, oppure a fattori legati al passato del paziente, come ad esempio un parente già sottoposto alla dialisi. Per il medico, inoltre, la dialisi può risultare la soluzione più comoda e diretta in caso di funzionalità renale molto bassa ma, se il paziente non ha la stessa percezione, potrebbe covare risentimento verso il proprio medico che lo spinge a fare qualcosa che egli desidera evitare a tutti i costi. (JAMA Intern Med online 2016, pubblicato il 25/1)